martedì 28 luglio 2015

Se mentre dormi un'ape ti sfiora le labbra




Se mentre dormi un'ape ti sfiora le labbra
non sono io nemmeno con il desiderio.
Non ti voglio incosciente preso in altri sgni
ti voglio mentre pronunci il mio nome.
L'amore è un corpo-a-corpo: così nel verso
si stringono e s'intrecciano musica e parola.
Non esiste un confine tra le due
né fra di noi un impalpabile muro.

Maria Luisa Spaziani



Questa è una poesia d'amore e solo per similitudine ci parla del rapporto tra musica e parole nella poesia. E' una poesia che richiede, all'amato, una fusione tra due corpi e due anime: nessun confine a dividere i due. Allo stesso modo le parole, nei testi poetici, sono un'unico di suono e significato, inscindibile.

martedì 21 luglio 2015

Preghiere alle parole

I poeti pretendono molto dalle parole.
Le parole devono volare, raggiungere gli estremi.
Le parole devono scendere in profondità ma anche raggiungere il cielo.
Devono essere carne, energia, collegamenti, battiti, fremiti.
Devono suonare, essere canto, corno inglese, ultrasuono.
I poeti chiedono alle parole di scatenare le forze cosmiche: balli di streghe, visioni, voli pindarici, una scossa elettrica che ci porti al cuore dell'universo.

Le parole stanno comunque nel vocabolario, dove troviamo scritto che le caratteristiche fondamentali dei nervi sono la eccitabilità è la conduttività.

Segni umbratili di nervi: proviamo a tradurre? Le parole, nell'ombra, innescano collegamenti e conducono le emozioni.

Non chiedermi parole ... M.L. Spaziani

Non chiedermi parole oggi non bastano.
Stanno nei dizionari: sia pure imprevedibili
nei loro incastri, sono consunte voci.
È sempre un prevedibile dejà vu.
Vorrei parlare con te - è lo stesso con Dio -
tramite segni umbratili di nervi,
elettrici messaggi che la psiche
trae dal cuore dell’universo.
Un fremere d’antenne, un disegno di danza,
un infinitesimo battere di ciglia,
la musica-ultrasuono che nemmeno
immaginava Bach.

Maria Luisa Spaziani

Gli strumenti della poesia sono le parole ma il tentativo della scrittura poetica è quello di andare oltre, di riuscire ad espandere le possibilità comunicative del linguaggio.
Maria Luisa Spaziani lo dice esplicitamente, a volte le parole non bastano, per quanto imprevedibili siano le infinite combinazioni che si possono produrre a partire da un dizionario. Qualche volte danno l'impressione di essere state troppo logorate dall'uso: i poeti di solito leggono molte poesie e possono avere la sensazione che non si possa trovare niente di nuovo.
Soprattutto quando si vuole comunicare qualcosa di molto .... Profondo ? Intimo? Non ho idea di chi sia l'interlocutore di questo testo, ma la Spaziani cerca il linguaggio che utilizzerebbe per un colloquio con il divino.
  E allora le parole devono essere altro, devono appartenere al mondo della carne diventando nervi o farsi invisibili energie nate dal profondo dell'universo. Devono essere vibranti e capaci di cogliere segnali, impercettibili come un movimento di palpebra, una musica che non si possa ascoltare attraverso i canali sensoriali consueti.

Corno inglese, Eugenio Montale

Il vento che stasera suona attento
-ricorda un forte scotere di lame-
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l' orizzonte di rame 
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D' alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell' ora che lenta s' annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore
Eugenio Montale

Attenzione: qui ci accostiamo a Eugenio Montale, forse il poeta per eccellenza del XX secolo. Non ha niente a che vedere con il vate di dannunziana memoria, non è certo il tipo da vestirsi di raso e velluto e neppure il personaggio che si può immaginare cavalcante sulla spiaggia; ed è quanto di più lontano possibile da una figura di santone o folle, che trae ispirazione dal suo contatto con gli inferi. Eppure, nella sua normalità di uomo borghese, ha saputo, attraverso le sue poesie, farsi carico di una autorevolezza da vaticinante. Che sia dovuto al fatto che i suoi testi sono spesso di difficile comprensione? In parte, insieme al fatto che il ritmo, il tono, oggi diremmo il mood delle sue poesie sembra che sia lì a dirti: ho visto cose che voi umani...
E allora ci avviciniamo in punta di piedi ad una sua poesia: si chiude con la parola cuore e la cosa potrebbe essere di buon auspicio. E' sera,  il vento suona attraverso gli alberi fitti come fosse un attento musicista (e gli alberi diventano gli strumenti del vento) producendo un rumore metallico; il suo soffio pulisce l'orizzonte al tramonto, laggiù dove strisce di luce sembrano tendere al cielo, come fossero aquiloni: ci sono nuvole in viaggio nel cielo che rimbomba, come porte socchiuse verso mondi paradisiaci; c'è aria di tempesta, il mare è livido, si crea un vortice di schiuma. Di fronte a questo spettacolo il poeta non è travolto dalle emozioni, anzi. Esprime un desiderio: che il vento possa far suonare anche il suo cuore, che è simile a uno strumento scordato.
Insomma, il poeta si sente un po' spento: il suo cuore non lascia sgorgare melodie di emozioni o armoniche sensazioni; è scordato e se qualcuno provasse a suonarlo non ne verrebbe fuori un granché. Gli sembra che il vento sappia ben più di lui far risuonare gli strumenti che ha a disposizione, mettere in moto le nubi, sconvolgere il mare, scuotere gli alberi. Una simile tempesta è ben lontana dal suo animo e un po' ne sente nostalgia.
Lezione uno: qualche volta le poesie di Montale sono comprensibili
Lezione due: anche i grandi poeti a volte non sentono grandi emozioni, anzi; però lo sanno raccontare in modo spettacolare.

Lezione tre: i richiami alla musica sono il filo che attraversa tutto il testo, dal titolo (corno inglese) alla tromba marina fino allo strumento scordato, il cuore. La poesia è una ragnatela di parole e bisogna seguire i diversi fili che ne tessono la trama.

lunedì 20 luglio 2015

Scendere agli inferi, volare lontano

Mi sa che i poeti hanno alcune fissazioni.
La luce ed il buio, prima tra tutte.
L'accendere una luce, in particolare.
L'idea di scendere in profondità, in qualunque modo.
Il cielo, che sia pieno di stelle o azzurro divino.
La sofferenza (almeno un po').
Dio (evocato o no)
L'inesauribile e tutto quello che non finisce.



Vola alta parola


Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi --sogno che la cosa esclami
nel buio della mente--
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza...

La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?

Mario Luzi

Mario Luzi in questo testo si rivolge direttamente alla poesia, per chiederle di assolvere alla sua funzione;  in questo modo ci chiarisce (si fa per dire) che cosa per lui debba essere il testo poetico. 
Cosa deve fare, dunque, la poesia?
Volare alta e crescere in profondità, quindi espandersi in ogni direzione, toccando gli estremi opposti (nadir e zenith); ma non si sta parlando di espansione in senso spaziale; si tratta di allargarsi in tutta la propria potenzialità di parola poetica, uno slancio a coprire ogni possibile direzione di significato.
La poesia ci viene presentata come uno strumento per potenziare la parola e portarla ai vertici estremi: in alto e nel profondo, come a volte è in grado di fare.
La poesia è anche un sogno (visione) capace di "gridare" le cose, (acclamarle, come si acclama un attore a tornare sul palco), portandole alle luce nei riflettori nel buio della mente: la poesia che porta alla luce, come il tuffatore di Ungaretti che disperdeva i suoi canti.
Tale potere della parola poetica non deve però diventare, per Luzi, un freddo esercizio retorico: il testo deve essere capace di trattenere in sé il calore umano della persona, deve essere "abitata".
Il viaggio della parola poetica porta lontano, ad appuntamenti celestiali, ed in qualche modo il poeta chiede di poter essere trasportato in quei mondi luminosi.

Questo testo è una preghiera: ti prego, è esplicitamente scritto. Il poeta prega la parola (e nella tradizione ebraica la parola è divinità) di essere un tramite, un mezzo per raggiungere le mete più ambizione dell'esperienza umana: il profondo, l'altissimo, le dimensioni che superano i confini dell'orizzonte.
Il testo si chiude con un dubbio: la poesia esprime l'essenza delle cose o la sofferenza umana? Lascerei la questione aperta ad analisti più attrezzati.


domenica 19 luglio 2015

Le bugie e le rime

Questa poesia di Caproni è utile (oltre che bellissima) perchè ci fa chiaramente capire l'importanza dei suoni nella pratica poetica. I suoni evocano immagini e dicono cose che vanno oltre il significato delle parole.

Vediamo di riordinare le idee.

I poeti lavorano nel buio: profondità marittime, notti solitarie.
I poeti vivono tra luce e buio: risalgono al giorno, accendono stelle e candele.
I poeti dicono bugie.
I poeti utilizzano le parole per il loro suono oltre che per il loro significato, raddoppiando (come minimo) la portata della loro comunicazione.

A mia madre (sempre Caproni)

Per lei

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era cosí schietta)
conservino l'eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
Giorgio Caproni

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-20793>

Qualche volta i poeti ci parlano degli strumenti del loro lavoro. In questa poesia Caproni si concentra sulla rima, l'elemento più riconoscibile tra tutti: non è raro che i bambini, di fronte alla domanda “Come hai capito che questa è una poesia (e non un racconto, una favola...)?” rispondano “Perchè ci sono le rime).
Caproni vuole descriverci la madre e comincia a riflettere insieme a noi sui suoni che più la possono rievocare. Si chiede quali rime siano più adatte e decide, subito: vuole rime in -are, che definisce chiare. Una rima chiara non esiste, vocabolario alla mano. Chiari sono i colori, ma per sinestesia (attenzione, lessico specifico: sinestesia è l'attribuzione di una qualità sensoriale ad un oggetto percepibile con un senso diverso) qui si fanno chiari i suoni, e si fa chiara, pulita, trasparente l'immagine della donna. Una donna normale, se per lei il poeta vuole rime usuali. E' deciso ad usare anche rime vietate (le regole ferree delle mode) ma che siano aperte e ventilate. I suoni chiari, aperti, ventilati creano in noi un'immagine di luce, di apertura, di aria. In effetti nella rima successiva ci troviamo subito al mare, attraverso i suoni “fini” degli orecchini: un tintinnare, un rumore leggero, qualcosa che ricorda i suoni marittimi, così come le collanine della donna appartengono al regno marino: sono coralli. In conclusione in poeta vuole rime eleganti, anche se elementari. E rime indelebili, anche di facile comprensione. Nel cercare i suoni più adatti alla descrizione della madre caproni ci racconta di lei. Della sua eleganza semplice, onesta, diretta, del suo essere una persona normale (usuale, elementare). Ma emerge anche un'immagine di luce, di mare, di vento, suoni di collane, rosso del corallo e un verde che chiude la poesia. Un ritratto di donna semplice, con misteriose aperture ai misteri dei suoni e dei colori. Chiudiamo la pagina e sentiamo il tintinnare degli orecchini mentre immaginiamo una collana di corallo su uno sfondo di brezza marina: una donna molto amata e mai dimenticata.

Sempre giochi: luce di candela e bugie

Un uomo  emerge scintillante nella luce solare, una donna nella notte crea mondi stellati, un uomo nel buio accende una candela.
I poeti accendono luci ( o raccolgono illuminazioni)  ma molto diversi sono i gradi di luminosità ai quali ambiscono.

Caproni si presenta come un uomo solo che accende un cerino per ottenere una piccola luce: a me viene in mente Geppetto, nel ventre della balena (e naturalmente Giona, a cui Collodi si è ispirato)
Ma attenzione: il poeta accende una candela nella sua mente.
Cioè il poeta racconta una bugia.
Le candele si accendono in chiesa, per una cena romantica, in caso di black-out.
Non si accendono candele nella testa (al limite lampadine, ma anche questa è una bugia, cioè una metafora che ha perso il suo potenziale diventando clichè)
Ma se lui intende dire una luce e per luce intende qualcosa tipo un' immagine, una sensazione di calore o qualunque altra cosa, allora ok, lo accettiamo.
I poeti scrivono bugie che però sono diversamente vere: le chiamano metafore.

Ed è puro caso che bugia significhi sia menzogna che candeliere.




lunedì 13 luglio 2015

... perch'io che nella notte abito solo





…perch’io, che nella notte abito solo,
anch’io, di notte, strusciando un cerino
sul muro, accendo cauto una candela
bianca nella mia mente – apro una vela
timida nella tenebra, e il pennino
strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo
e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto
che mi bagna la mente…

Giorgio Caproni


Ecco un altro testo che ci racconta come lavora un poeta: si tratta di Giorgio Caproni, livornese, per nulla pazzo. Così racconta il suo lavoro di creazione.
Un uomo solo nella notte, un uomo che abita la notte, come se vivesse in quel buio e in quella solitudine. Ma quell'io, quella voce che viene dal buio diventa subito un “ anche io”: parla con noi, ci dice che sa, non è l'unico ad abitare quel mondo.
Nella notte accende una candela, strusciando sul muro un cerino: in quel silenzio sentiamo lo strusciare, movimenti minimi, una luce che si accende ma debole, timorosa. Nel calore di quel piccolo spazio illuminato l'uomo scrive, a lungo, e scrive del suo dolore; lo scrivere (il pensare)  accende una seconda luce, il bianco di una vela che si apre nella mente, in contrasto con il buio e con il muro accanto: una timida vela, che forse potrebbe regalare un momento di apertura, un andare per mare, nella luce. Una candela, una vela: la candela è accesa dal cerino, che struscia sul muro; la vela si apre grazie al pennino, che struscia (sulla carta) e bagna la mente: sta scrivendo del dolore, il pennino perde inchiostro, scendono lacrime nella mente. Scrive, anche lui (come tutti?), in quel buio, appena rischiarato, in quel silenzio, rotto da struscii e scricchiolii. Tutto è minimo, un bianco e nero essenziale. E il poeta non ha la maiuscola: è uno come altri, che accende cautamente una luce nel buio e apre timide vele. Niente voli pindarici, nessuna illuminazione eccezionale. Una mente che scrive e scrive il proprio dolore, con qualche accenno di apertura alare.

Giochetti: il buio e la luce

Il poeta lavora, non è un giovane in vacanza che si tuffa dagli scogli.
Il poeta fa il turno di notte: non è facile, si dice in giro.
Il poeta insomma lavora nel buio: scende nei fondali marini o aspetta il calare del sole.
Dal buio il poeta ritorna alla luce (Ungaretti) o addirittura produce la luce (una cupola di stelle)
Il movimento è comunque confermato: è nel buio che il poeta cerca i suoi gioielli: per qualcuno è un'avventurosa caccia al tesoro, per altri un faticoso lavoro di miniera.
Il poeta eroico di Ungaretti si trasforma nel creatore di stelle solitario della Merini: in effetti era il caso di chiedere scusa a Dio. Motivo del contendere: il copyright del fiat lux.
Le poesie sono legate al viaggio buio-luce e contemporaneamente al mondo del sonoro: sono canti, o fanno il rumore delle stelle.
A proposito di rumore delle stelle: la musica celestiale delle sfere celesti non è forse un altro buon motivo per litigare con Dio?


domenica 12 luglio 2015

i poeti lavorano di notte

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere iddio
ma i poeti nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

Rimaniamo dunque in tema e vediamo cosa ne pensa Alda Merini su chi siano i poeti. La poetessa italiana ci offre una sua immagine per definire l'universo misterioso della poesia: credo che tutti siano a conoscenza dell'aura di “pazzia” che circonda la figura della Merini; una conferma del luogo comune che avvicina la creatività alla sofferenza psichica. Così, prima ancora di leggere, abbiamo già in mente l'idea che i poeti, almeno un po', devono essere dei pazzi (utilizzo la parola in modo volontariamente superficiale; mi piace anche la definizione di “matto”, ma in questo caso “pazza” è più appropriato).
La Merini ci dice che i poeti lavorano, come tutti: il loro lavoro però si svolge la notte, come quello dei panettieri: li possiamo immaginare nel silenzio, in un tempo senza fretta, senza la crudeltà delle urgenze. Forse non è proprio vero che le poesie vengono scritte di notte, ma quello che possiamo immaginare è un momento di solitudine, silenzioso e tranquillo, senza fretta alcuna. Ma l'idea della notte ritorna al verso 4, che dice ”i poeti lavorano nel buio”- lavorare nel buio può farci venire in mente varie cose: qualcuno che scrive di notte, appunto, ma anche qualcuno che scrive di nascosto, senza che altri lo vedano. E ancora: qualcuno che lavora in zone oscure, come il profondo dell'anima (o della mente): Ungarett, abbiamo sentito, parlava di un porto sepolto, altro luogo buio, lontano dalla luce. I poeti cantano (come uccelli, sempre notturni) e con il loro canto temono di offendere Dio. Perché mai dovrebbero offendere Dio con un canto? In che modo si offende Dio? Si offende, ad esempio, nominando il suo nome invano (così dice il primo comandamento): forse i poeti parlano di Dio e lo nominano senza la dovuta fede; oppure i poeti, come Dio, creano mondi.
Nei versi conclusivi l'immagine più forte: i poeti vengono paragonati a una cupola di stelle, come se la loro luce, nella notte, rimanesse accesa a proteggerci. Ma l'immagine è più complicata di così: i poeti, silenziosamente, fanno rumore (in effetti come gli usignoli)) e questo loro rumore è più forte di quello di ….di una dorata cupola di stelle. Le stelle non fanno rumore, le stelle sono lontane, silenziose, a volte già morte mentre le ammiriamo. Le stelle brillano, però, e la loro luce cade su di noi come una pioggia dorata. Forse il canto del poeta è una pioggia leggera e dorata, che illumina la loro e nostra notte, nel silenzio e nella pace della solitudine.

Questo fa la poesia: ci fa sentire il rumore delle stelle come se fosse il canto di un usignolo, ci fa immaginare una pioggia di cui nessuno ha parlato e così ci costringe a vagare tra le parole, nella tranquillità della notte.

Giochetti: l'inesauribile


Cos'è dunque una poesia?
Qualcosa che si sfugge dalle mani
Un canto che non riusciamo a ricordare
Il tentativo di descrivere una visione
E il poeta?
Un tuffatore, un ricercatore, un portatore di intuizioni, qualcuno che scruta il profondo.
Un uomo dei segreti, capace di ascoltare le musiche degli abissi è che tenta di trasformarli in parole.
Un eroe, scintillante di luce e brillante di mare, mentre emerge dal grembo marino.

La parola chiave, tra così poche parole? Io scelgo inesauribile.

sabato 11 luglio 2015

Il porto sepolto




Il porto sepolto

Mariano il 29 giugno 1916.

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
di inesauribile segreto.

Ho deciso di partire dall'Egitto, per il nostro viaggio nella poesia italiana, da un luogo-mito al quale Giuseppe Ungaretti ha affidato il compito di rappresentare l'essenza della costruzione poetica: il porto antico di Alessandria, di cui si narrava fosse sepolto nel mare. E' un testo perfetto per cominciare, per vari motivi: prima di tutto perchè è stato scritto all'inizio del secolo scorso quando la poesia ha preso decisamente la forma che oggi è per noi più riconoscibile; inoltre è un testo-dichiarativo di che cosa Ungaretti intendesse per poesia. Appunto, di questo si tratta: che cos'è mai la poesia? La domanda è sbagliata, lo sappiamo, perchè nessuna risposta sarà mai abbastanza chiara e esaustiva: si tratta di una delle espressioni umane più complesse, legata al mondo del sonoro e dell'immagine, e contemporaneamente strumento che potenzia la possibilità della parola di produrre senso e significato.

E allora ascoltiamo le parole, e lasciamo che facciano il loro lavoro: produrre suoni, evocare immagini, creare significati.
Sono pochi versi, divisi in due strofe. La prima strofa ci dice semplicemente che il porto sepolto del titolo è il luogo dove arriva il poeta e da dove poi torna portando con sé i suo canti, che vanno subito dispersi. Il poeta ci viene quindi narrato come un tuffatore, qualcuno che scende negli abissi oscuri e da laggiù torna ricco di “intuizioni” che non sono ancora parola, stanno ancora più vicini al mondo musicale. Queste canti, appena arrivati alla luce, anziché nascere, appunto “venire alla luce”, si disperdono: il loro luogo è la profondità oscura del grembo marino ed il loro viaggio verso i mondi della ragione (illuministica ratio) è destinato a dissiparli. Come un sogno che al risveglio ci sfugge.
Non dimentichiamo però che quel luogo, dal quale giunge il poeta, non è l'abisso oceanico popolato di mostri fantastici, ma il Mare Nostrum, caldo e cullante, che custodisce i resti del nostro passato: in questo caso un porto, luogo di approdo e rifugio.
Il mare, il porto, il grembo materno, l'infanzia, la luce e l'oscuro: forse è proprio così che funziona la poesia, producendo un movimento interpretativo potenzialmente infinito.
Per semplificare un po': il poeta sembra essere qualcuno che può accedere ad un mondo misterioso, situato in profondità e da lì tornare a noi, ricco di canti che ha raccolto in quelle lontananze. Io lo imagino scintillante e vigoroso, un giovane eroe greco-alessandrino che si tuffa dagli scogli e riemerge per portarci i suoi doni. Diperdendoli.

Qualcosa rimane, di quei canti perduti, di questa poesia; rimane un nulla. Anzi, rimane quel nulla: l’aggettivo ci fa capire che è un qualcosa di conosciuto, di determinato. E’ quel nulla, conosciuto, già sperimentato, che ha il sapore di un segreto. Il poeta laggiù ha trovato qualcosa, un segreto inesauribile, una ricchezza inafferrabile ma infinita. E a noi cosa rimane? Una poesia, che ci racconta di come i canti si disperdano alla luce, che ci ricorda che esistono fonti di segreti inesauribili e che prova a raccontarci a cosa tende il lavoro dei poeti.



venerdì 10 luglio 2015

Introduzione, per giustificarsi

Non sono mai stata una lettrice di poesia. Naturalmente ho letto e apprezzato, nel corso della mia vita, parecchie poesie: molte di queste le ho incontrate a scuola, altre mi sono state passate da amici (qualche volta perfino dedicate), molte le ho potute gustare attraverso la lettura di attori appassionati. In moltissime occasioni lo sforzo che mi hanno richiesto per "comprenderle" è stato ampiamente ripagato e ho intuito, in un qualche modo, la potenza della parola poetica.
Ho sempre cercato un aiuto, in questo senso, qualcuno che mi accompagnasse nella fatica della decifrazione, che trovasse le parole per raccontarmi le poesie: una narrazione che mi avvicinasse, che facesse per me da ponte attraverso il quale raggiungere il testo.
Ho pensato, a un certo punto, di aiutarmi da sola: so per esperienza che il modo migliore che conosco per capire qualcosa è cercare di chiarirlo ad altri. Insegnare è in questo senso un ottimo modo per imparare. È così ho deciso di scrivere qualcosa che vorrei leggere: brevi racconti di percorsi intorno alle poesie, passi circospetti attorno ad un oggetto misterioso, cercando di capire di che cosa si tratta.
Se volete accompagnarmi, siete i benvenuti.
Se siete lettori di poesia non deridete troppo le mie ingenuità.
Se siete tecnicamente preparati siate indulgenti con le mie mancanze.
Questo libro è per chi sta sulla soglia, un passo prima di entrare nell'universo poetico.


Mi sono data due regole, limitative: attenermi alle poesie in lingua italiana e al XXI secolo.